Mario Tamponi Zurück
L’amore delle cose Il furto legale Oggi Velotax, il grande magazzino del centro, è affollato fino all’inverosimile. Oltre al pubblico ordinario c’è quello spendaccione del fine-settimana di fine-mese. Fluisce come un fiume in piena nelle arterie centrali dei quattro piani luminosi, alimenta le ramificazioni laterali e i rigagnoli tra le bancarelle delle offerte speciali. La voce suadente degli altoparlanti reclamizza le novità della profumeria e dell’elettronica; improvvisamente si inalbera diventando virile e severa. Con la solennità degli eventi straordinari scandisce le parole: “Signore e signori, siamo spiacenti di comunicarVi che al pianterreno è in corso un’azione di polizia. Vi preghiamo di fermarvi ciascuno al proprio posto fino a nuovo ordine e di mantenere la calma. Vi terremo al corrente sugli sviluppi.” L’invito a non lasciarsi prendere dal panico ha l’effetto di un gas letale filtrato dall’alto. Come per contagio si diffondono dappertutto la paralisi e il silenzio profondo; anche i clienti della scala mobile si affrettano verso l’immobilità del primo pianerottolo. “Una bomba? Un attentato terroristico?” sussurrano in molti con sguardi smarriti e interrogativi. “Ma no, altrimenti ci farebbero uscire!” Ma se il caso non è così grave perché un annuncio così drammatico? In effetti per episodi di furto Velotax reagisce in genere con estrema discrezione: il ladruncolo sorpreso e acciuffato viene accompagnato dal caporeparto nella stanzetta “oggetti smarriti”, a quattr’occhi viene sollecitato a riconoscere la leggerezza e a restituire il maltolto; solo in caso di resistenza interviene la polizia. Nelle ultime settimane però si è registrata un’escalation preoccupante e ora il direttore pare intenzionato ad inscenare un’azione dimostrativamente repressiva. L’equivoco “Di nuovo! Ma che diamine!” mormora indispettito Arno P. sbirciando l’orologio. Suppone che l’allarme lo riguardi personalmente, ma non sembra preoccuparsene più di tanto. Al primo piano si è già messo in tasca un massiccio anello con brillante firmato Cartier, più in là un flacone del nuovo profumo Armani. Verso la telecamera che lo spiava ha rivolto un sorriso sbarazzino, come verso una guida turistica di Piazza Navona che volesse scattargli una foto-ricordo. Sta per entrare nel reparto alimentari per la periodica provvista di prosciutto San Daniele e del Brunello Montalcino d’annata quando quattro poliziotti gli sbarrano energicamente il passo con un “alt!” corale e categorico. La divisa verde-ruggine degli agenti profuma ancora di guardaroba; sul berretto si erge un pennacchio variopinto. Dai loro occhietti vispi e da tutti i pori traspira la soddisfazione di aver rotto noia e anonimato con un’operazione spettacolare degna dell’arma. Il primo palpa il malcapitato con circospezione alla ricerca della pistola nascosta; il più anziano lo squadra nella tasca rigonfia; il più grassottello controlla la situazione a distanza accarezzando la propria rivoltella con la freddezza dello sceriffo dei fumetti. Arno depone spontaneamente gioiello e profumo nel cestello di vimini che il quarto poliziotto gli avvicina con precauzione per non contaminarsi. Ammanettato, lo scortano verso lo stanzino famigerato. Le manette d’acciaio ai polsi contrastano col suo fisico mingherlino, con l’abbigliamento elegante, la faccia perbene, la beatitudine di chi entra nell’ufficio viaggi per una vacanza alle Bahamas. La direzione segue la scena incollata sui monitor della sala di controllo; le stesse immagini vengono irradiate su tutti gli schermi per consentire al pubblico di vederle comodamente da ogni angolo di ogni piano. Ognuno deve essere fiero della straordinaria efficienza del Velotax che isola la furbizia di pochi per onorare l’onestà di molti. Dagli altoparlanti si diffonde un valzer di sfondo, quello stimolatore di ormoni che inducono agli acquisti, ma che ora, nell’assenza dei rumori consueti, esaspera la suspence come un arrangiamento di Morricone. Del resto è avvincente per tutti godersi la scena poliziesca dall’interno, da comparse, tra l’altro senza rischiare nulla. Ben altra cosa sarebbe in una banca assediata, dove bisogna accovacciarsi per terra o disporsi contromuro, e pur sempre col pericolo di beccarsi qualche pallottola vagante. Dopo una decina di minuti, che per i più sembrano più lunghi dell’ultimo film di Schwarzenegger, riappaiono i poliziotti con Arno. Lo riaccompagnano dove l’hanno prelevato, ma con ostentata cordialità e ovviamente senza manette. Conversano con lui con disinvoltura, scherzano, sorridono e ridono alla Jerry Lewis nel difficile tentativo di ristabilire la normalità. Si avvicendano nelle strette di mano con pacca sulle spalle. Come se il film di prima si fosse interrotto per una pausa dei lavori sul set, e gli attori avessero ripreso il rapporto di amicizia col nemico della finzione cinematografica. Proprio in quel momento entra in campo il direttore generale in persona. È trafelato, lo precedono due giovani assistenti del gentil sesso; a stento riescono a farsi varco tra la folla, che non capisce e non sa quale colpo di scena aspettarsi. Il signor Schmidt, il direttore del Velotax, è un uomo di vertice e di regìa. È raro vederlo tra i collaboratori e i consumatori. In questo ruolo inedito non sa dove tenere le mani; si tira sù i pantaloni, si sbottona e riabbottona la giacca, si aggiusta il nodo della cravatta, si avvita le estremità dei baffi alla Radetzky, dove pare si sia trasferita l’intera autorità. Abbraccia Arno con la deferenza e l’affetto di un vescovo in una messa pontificale e gli riconsegna il gioiello e il profumo in confezione di carta dorata. Se lo tiene stretto stretto, poi si aggrappa a un microfono improvvisato come a un bastone di sostegno e con voce ondulata implora: “Oggi, mie care signore e signori, qui c’è stato un equivoco. Ce ne scusiamo. Il signore che mi sta accanto è un nostro caro amico, non è un ladro ma un galantuomo. Con la sua presenza onora il Velotax e ciascuno di noi. Vi invito tutti a brindare alla sua salute con un bicchiere di champagne.” Arno non mostra particolare interesse a questa sceneggiata. Non ama la retorica e si sente quasi una macchietta nel doverla subire da uno spilungone che lo sovrasta di venti centimetri. Si distrae esaminando l’assistente più avvenente dentro la generosa scollatura e sotto la minigonna mozzafiato. Dalla targhetta sul petto prosperoso sa che si chiama Marta. La conoscenza del nome di battesimo gli consente una certa confidenza, che Marta ricambia con un occhiolino d’intesa. Colpiscono le gambe slanciate su scarpe a spillo, la bionda capigliatura a casco, la faccia senza trucco con lineamenti da coniglietto, il neo naturale sulla guancia sinistra. Il pubblico brinda, quindi riprende a fluire nelle arterie, nei rami laterali e nei rigagnoli del Velotax con una rinnovata voglia di spendere. Il signor Schmidt si rifiuta di rilasciare dichiarazioni a due reporter che gli puntano microfoni in faccia come archibugi e lo provocano con insinuazioni offensive; li scarica al responsabile dell’ufficio stampa. In una situazione così delicata è risoluto a evitare nuove gaffes. Ora intende donarsi interamente ad Arno, come a un compagno delle scuole elementari ritrovato per caso dopo una vita di sventure. Si vede che è irrequieto. Non ha nessuna voglia di andare in pensione; tutti sanno che è interessato ad un nuovo scatto di carriera. Ci mancherebbe proprio una denuncia per denigrazione pubblica con l’aggravante della messinscena! Congedandosi elogia la saggezza di Arno e si autoinvita per l’indomani a casa sua. È chiaro che intende suggellare la riconciliazione penetrando nel privato. Prova a dargli del tu. Arno, che non vede la ragione per fare altrettanto, gli dice che lo aspetta con Marta. Il signor Schmidt si guarda bene dal contrariarlo, anche se affiancarsi ad una dipendente in una visita di alta diplomazia gli pesa come uno sberleffo. Il diploma Il giorno dopo suona alla porta di Arno con una puntualità spacca-secondo. Si presenta con un maglione rigato e un ridicolo berretto da marinaio; i consulenti d’immagine gli hanno suggerito un abbigliamento sportivo perché trasmette disinvoltura e amicizia più di qualsiasi parola. Il saluto è un banalissimo: “Ciao, carissimo amico, come stai?” Marta ostenta invece la stessa scollatura e minigonna, che la dispensano da formule di rito. Il padrone di casa li riceve avvolto in una vestaglia di seta fosforescente e li introduce nel salotto-studio per un Martini. Sulla parete dietro la scrivania risalta in una cornice di ottone il “certificato ufficiale”; ieri, nella famigerata stanzetta del Velotax, Arno ne ha mostrato una sgualcita fotocopia. Vi è contenuto il testo della sentenza del tribunale, confermata tre anni fa in Cassazione, che si sintetizza nel titolo a caratteri cubitali: L’AMORE DELLE COSE. La sentenza, espressa nel linguaggio arido della giurisprudenza, decreta praticamente che, “essendo l’amore di Arno per le cose così coinvolgente” gli viene riconosciuto “il sacrosanto diritto di appropriarsene a piacere secondo la sua illuminata discrezione”. Con ciò “vengono interdetti nei suoi riguardi i termini o qualifiche di furto, latrocinio, cleptomania, rapina e affini come gravemente diffamatori, in quanto impropri, discriminatori, disonorevoli, offensivi”. Il signor Schmidt conosceva già il testo; ora si sofferma estasiato sui colori e sui simboli che conferiscono al diploma la più nobile ufficialità. In una combinazione mai vista si fondono bandiere ed emblemi nazionali, europei e delle Nazioni Unite, così come le immagini che nella classicità e nella modernità raffigurano la giustizia e la centralità dell’uomo nel cosmo. Tutto ciò si trasmette nell’immaginario con una autorevolezza maggiore di quella delle firme riportate in calce: del presidente di Cassazione, del ministro della Giustizia e del capo dello Stato. Ispira una profonda commozione patriottica, non solo della nazione ma soprattutto della patria universale. Nel certificato ufficiale non c’è altro. Per coglierne i dettagli e il significato bisognerebbe consultare i voluminosi atti giudiziari, raccolti in un fascicolo sulla scrivania accanto all’album fotografico. Il signor Schmidt li sfoglia a caso. Vi legge che in Arno “la forza di appropriazione delle cose è tale che tentare di ostacolarla sarebbe come andare contro natura”. E poi: “Di chi è il sole, il cielo, l’aria, il mare? Chi potrebbe condannare un cittadino che con slancio mistico e poetico voglia appropriarsene? Arno è trascinato dallo stesso impeto naturale e spirituale anche verso le cose più piccole. Le ama senza lasciarsi soggiogare. Se ne serve, ma col dovuto distacco.” La consultazione del signor Schmidt è rapida e concitata. Non si preoccupa di distinguere tra gli atti deliberanti del tribunale, i verbali, i commenti e la cronaca della stampa, gli appunti personali. Postilla la lettura di ogni brano con un indifferenziato “Accidenti! Incredibile! Eccezionale!” Marta si sofferma sui grafici e gli aspetti più vistosi e di facile comprensione. Neppure quelli più indigesti le sono però indifferenti, hanno la suggestione del mistero. Lei emula il direttore, ogni tanto si concede la licenza di qualche considerazione più personale: “Non pensavo che per legalizzare il furto ci fosse bisogno di tanta teoria!” Il principale la riprende con una smorfia per l’improprietà di linguaggio. Ma Arno non è permaloso. Oltretutto si sente gratificato dalla crescente ammirazione della donna, che gli si stringe accanto solleticandolo con le rigide estremità del seno. Il signor Schmidt si sofferma su un altro passo del fascicolo. Testualmente: “La sentenza si ispira ad una antropologia che veramente pone l’uomo al centro delle istituzioni e dello stesso sistema giuridico. L’uomo in questione non è un essere ideale, universale, collettivo; non è l’elemento anonimo delle masse e delle statistiche. No! Qui si tratta dell’uomo singolo. È il singolo l’unico centro e soggetto dei diritti inalienabili.” E ancora: “Non sarà la moltitudine a decretare la razionalità o l’irrazionalità del singolo, i diritti o la riduzione dei diritti del singolo. Visto dal singolo, ogni punto di vista è relativo, è relativa persino la categoria di pazzia.” La chiosa del direttore è perentoria: “Pazzesco... incredibile!” Egli non ha mai perso di vista l’obiettivo della sua visita; la parola d’ordine è condividere, compiacere. Ma su un altro brano non riesce a soffocare l’obiezione: “Insomma, qui si scalza alle fondamenta il principio di proprietà del diritto romano e di ogni sano capitalismo!” Arno acconsente soprappensiero, indispettito dall’improvvisa fuga di Marta verso una foto gigante della Costa Smeralda sull’altra parete: “Certo, la tendenza è più vicina all’ideale del comunismo che privilegia i bisogni del singolo e l’uguaglianza dei singoli. Ma proprio per questo non ha nulla a che fare col collettivismo marxista che uccide l’individuo. Il fondamento sta piuttosto nel suo contrario: nel riscatto kantiano dell’uomo; in quello della rivoluzione francese e del cristianesimo in genere. Ovviamente questo riscatto è solo teorico, nel senso che ogni conquista civile si guarda bene dal realizzarlo alla lettera, fino alle estreme conseguenze. Chi vuole in fondo la rivoluzione permanente?” Arno si rende conto di essersi sfogato come in una dissertazione universitaria. Si propone fermamente di non farlo più. Il signor Schmidt scuote la testa come chi riesca ad afferrare qualche dettaglio, ma non il nocciolo della questione. Capisce però che questa maledetta sentenza scalza il sistema che ispira la sua carriera e la gestione del Velotax: “Di questo passo dove andremo a finire?” borbotta senza attendere risposta. Marta, che nel frattempo si è riavvicinata, si preoccupa di strappare i due allo stagno in cui si sono cacciati: “Ma perchè questa libertà di rubar..., pardon, di appropriarsi delle cose vale solo per Lei e non, ad esempio, anche per me? E se...” “Dovrebbe valere per chiunque sia in grado di dimostrare di avere un pari amore delle cose”, la interrompe Arno con un dialogico pizzicotto sui fianchi. “E non è detto”, aggiunge senza riprendere fiato, “che un giorno questo amore non possa venir meno o degenerare anche in me.” Nella morsa della donna tralascia di precisare che per legge egli deve sottoporsi ad un periodico controllo di idoneità. Una volta la settimana si reca dall’Operatore, volgamente chiamato psichiatra, ma che nel lessico giudiziario è indicato come Antropologo. È un obbligo, ma egli lo vive come uno svago. Non subisce interrogatori, visite mediche o ispezioni ai raggi x, y oppure z. Nulla di tutto questo! Si distende supino su un soffice divano o sceglie la posizione che crede per riprendere il filo dell’ispirazione. Parla come un mistico in stato di raptus o un poeta che in versi smussa i contorni delle cose e si lascia pervadere dall’anima del cosmo. Ogni tanto si solleva come in un piacevole dormiveglia per esprimersi sulla carta con immagini e colori. Non sa disegnare. E così gli vengono fuori degli scarabocchi, che però alludono alle cose profondamente desiderate. L’Operatore lo segue compiaciuto, come se, in barba all’etica professionale, agognasse l’inversione dei ruoli. Quando se ne va Arno si sente risollevato, liberato dal peso di dover cercare a tentoni. Sa già perfettamente, per intuito, di quali cose dovrà appropriarsi. Amore delle cose Col suo titolo può accedere a tutto. È un amante delle cose, ma non un avido, un maniaco. Si appropria di ciò di cui ha bisogno. I suoi bisogni non vengono prescritti da norme, da istituzioni, da estranei. Soltanto a lui, alla sua fantasia e al suo buonsenso, è lasciato il diritto di valutare e agire. I luoghi privilegiati di appropriazione immediata sono i grandi magazzini, dove si trova subito tutto ciò che serve, già organizzato in scompartimenti e molteplici versioni alternative. Nella misura del possibile Arno preferisce non farsi riconoscere per evitare gli sguardi invidiosi o servili del personale. Quando i bisogni sono meno urgenti e più raffinati, il grande magazzino diventa inadeguato. Allora suppliscono altri centri commerciali, le boutique e le gioiellerie più esclusive, le gallerie dove è possibile trovare la risposta personalizzata a ogni desiderio. Arno apprezza la qualità anche per le necessità più ordinarie. È di casa al mercato ortofrutticolo per la frutta di stagione e quella esotica. Per la carne fresca si reca spesso alla macelleria del mattatoio comunale, ma tenendosi a dovuta distanza dal macello che considera un orrore, un oltraggio alla dignità degli animali. Per aggiornarsi sulle novità merceologiche frequenta fiere, esposizioni, rassegne e sfilate, da cui riceve numerosi inviti personali. La sua apparizione non viene sopportata come quella del parassita che non è. In qualche rozzo mercante potrà suscitare al più un certo fastidio. Ma i più aperti si sentono sinceramente onorati della sua presenza, la considerano come un valore aggiunto per il loro esercizio commerciale. Il che è anche ovvio, se si pensa che ad Arno le alternative non mancano. E per qualsiasi azienda prescelta il ritorno d’immagine è sempre decisamente superiore a ciò di cui egli potrebbe appropriarsi. A parte il fatto che non è un ingordo, uno spregiudicato, uno sprecone. Non si appropria neppure di cose di cui potrebbe aver bisogno la moglie. “Se lo facessi, sarebbe come un sovvertire il principio del bisogno personale, generare conflitti d’interesse, confusioni psicologiche”, dice. Di fatto la moglie lavora e contribuisce per la sua parte al sostentamento della famiglia. Altra cosa è se lui desidera farle un regalo o tanti. Allora il soggetto del bisogno non è lei, ma lui stesso e l’appropriazione rientra nello spirito della piena legittimità. Arno respinge regolarmente le proposte di società da parte di gente che con la sua prerogativa vorrebbe accumulare capitali o disporre del necessario per l’avvio di nuove imprese. “Non mi presto alla speculazione”, taglia secco. “Il bisogno è un impulso che non sta a me programmare o gonfiare. Il diritto, come l’amore, è del tutto individuale, esistenziale.” Non deve sorprendere se a volte, trovandosi di fronte ad alternative di cose appetibili, propende magari per quelle meno preziose. Così come, se la scelta cade sulle cose decisamente più care, non ha senso attribuirla a capriccio. Il fatto è che per lui l’unico valore rilevante è quello soggettivo. Il valore oggettivo riguarda solo coloro che con le cose hanno un rapporto commerciale, di scambio e di profitto, non di amore. Ma ritorniamo ai nostri che, su concessione di Arno, ispezionano l’appartamento. “Con le Sue possibilità pensavo di trovare molto di più”, osserva Marta. “Non si può trasformare la casa in un deposito”, replica Arno. “Anzi quando porto cose nuove, faccio spazio eliminando le vecchie e ingombranti.” “Le butta?”, insiste lei. “No, prima vedo se c’è posto negli altri appartamenti. Se non c’è, le restituisco oppure le regalo a chi ne ha più bisogno di me.” Oltre a questa casa in affitto in centro città, dispone di una villetta tra i platani della periferia per i fine-settimana e di un’altra al mare tra le dune per il riposo estivo. Se ne è appropriato senza che i proprietari, troppo ricchi, se ne siano resi conto. Gli immobili rientrano tra le cose appetibili di Arno, anche se in questo campo egli modera i desideri per evitare di sconfinare inavvertitamente nel superfluo. Per le due villette ha dovuto accedere ai contratti di compravendita depositati dal notaio, di notte per la sostituzione di altri nomi col proprio. Si propone di fare l’operazione inversa quando dovessero cambiare i bisogni. “Questo sì che è un capolavoro!” esulta il signor Schmidt contemplando un dipinto agreste di Gauguin tra i tanti che tappezzano le pareti grigie di fumo del corridoio e del soggiorno. C’è anche un ritratto del migliore Modigliani. In effetti sono gli unici grandi autori presenti. Nessuno è in grado di dire se si tratti di originali o di falsi. Ma per Arno la questione è una sottigliezza retorica. Se volesse, potrebbe metter sù la galleria più esclusiva della città. Ma è tutt’altro che un esibizionista. I quadri gli interessano solo per il piacere di vederli, non per l’astratto valore di quotazione. Non è neppure un intenditore e i gusti sono persino mediocri. Quando un soggetto comincia ad annoiarlo lo sostituisce con un altro. “Ma se la legge ti riconosce il diritto di tenerlo, perchè restituirlo?” sussurra il signor Schmidt come se non riuscisse a far quadrare i conti e stesse parlando con se stesso. “Caro direttore, con la mia eredità non si arricchirà nessuno. Ma questa è anche la mia tranquillità. Non è una fortuna star fuori del mirino dei delinquenti, evitare gli intrighi di ladri e speculatori?” bisbiglia Arno senza illudersi di essere capito. Amore delle donne Marta pare impaziente di rivolgere una domanda, ma non osa interrompere le riflessioni del principale. Appena si apre uno spiraglio la formula con l’aria dell’alunna diligente: “Il Suo diritto di appropriazione riguarda anche le donne? Voglio dire, la facilità di accesso ad ogni cosa agevola anche la Sua vita sentimentale?” Arno quasi se l’aspettava; il pathos della ragazza non gli consente una risposta serena. La sua voce si fa rauca e incerta come in una confessione imbarazzante: “Di per se sono felicemente sposato con Carolina e non ho problemi di sesso. Talvolta però salta fuori qualche specialità, l’attrazione verso qualche donna particolare.” Marta arrossisce. “In genere non sono interessato a prestazioni con prostitute a pagamento, neppure con quelle di lusso. Se lo fossi, certo col mio certificato non avrei problemi. La difficoltà si pone quando mi interessa una ragazza comune, fuori commercio. In questo caso il diploma conta quasi come carta straccia. Su una persona nessun’altra può rivendicare diritti di proprietà o di uso. Ognuno ha il diritto esclusivo di gestire il proprio corpo.” Marta tossisce confusa come se stesse ascoltando un discorso erotico, indecente per la presenza del principale. Arno incalza: “E allora bisogna aggirare l’ostacolo passando dalla proprietà alla seduzione. Il che significa che bisogna attivare la fantasia e seguire traiettorie spesso contorte e faticose. Intuiti e accertati i gusti della donna desiderata, sarà opportuno travestirsi per rendersi interessanti.” A Marta che lo segue con occhioni languidi non riesce a dire come. Come? Appropriandosi di vestiti eleganti, di baffi verosimili, di parrucchini speciali, di profumi inebrianti, di regali spezzacuori, di viaggi esotici... In questo è agevolato dal suo certificato. Quasi mai ha fallito quando si è impegnato a dovere. Fallisce quando l’impegno è debole. Ma allora nulla di male: vuol dire che il bisogno non è reale. “Ssss! Ssss! Potrebbe arrivare la signora”, interrompe Marta con civettuola complicità. “Ma no”, la rassicura Arno, “mia moglie sa e deve sapere tutto. Le corna programmate e nascoste sarebbero un furto indegno; non ne sarei capace neppure su scommessa. Carolina chiude un occhio sulle inevitabili scappatelle; sa che non hanno importanza. Anzi, lo dice lei stessa, giovano a consolidare l’unione matrimoniale. Reprimere questi desideri collaterali è come voler interferire con la natura, avvelenare gli animi.” Il signor Schmidt si sente come messo da parte; questo genere di discorsi non sembra essere il suo forte. Si decide a rompere il ghiaccio con un quesito, continuando a dare del tu a senso unico: “Ma sai che sei un bel tipo. Come avrei potuto sapere ieri del rischio a cui andavo incontro facendoti arrestare? Nessuno mi aveva mostrato prima il tuo certificato di amore delle cose!” “Eh no”, redarguisce Arno implacabile, “Lei dovrebbe sapere che al certificato corrisponde un distintivo; lo porto sempre all’occhiello della giacca, sulla camicia o sul berretto. Lo vede? E non si tratta di una banale onorificenza della Repubblica conferita, come spesso avviene, alla feccia della società. Non si tratta dell’appartenenza ad una loggia massonica o all’associazione degli artisti spiantati. Questo distintivo vale quanto una dichiarazione ufficiale dell’ONU, signor Schmidt. Prima di pensar male del prossimo o di arrestarlo, le commesse e i poliziotti dovrebbero tenere gli occhi spalancati. Chi ha la responsabilità di un grande magazzino dovrebbe informarsi e imparare a riconoscere un distintivo come questo, istituito dalla legge. La giustizia non ammette ignoranza! Ma stia tranquillo, con me non ha di che preoccuparsi.” L’interruzione secca fa precipitare la temperatura allo zero assoluto. “Tu parli come un uomo libero”, balbetta il direttore come paralizzato. Arno parla come un uomo libero perchè è un uomo libero. “È l’uomo che, amando, ha il diritto di usare le cose; non viceversa” – è il suo motto preferito. “Il distacco dalle cose è la mia povertà; ma questa povertà è la mia ricchezza” – è la sintesi del suo programma di vita. “Ma non pensi che un giorno qualcuno potrebbe portarti via i privilegi di questo benedetto certificato?” obietta il direttore. “La mia coscienza di uomo libero”, replica Arno, “mi libera persino della paura di una possibile restaurazione futura. Cioè che possa instaurarsi un giorno un governo reazionario e oscurantista che sovverta non solo l’attuale legislazione, ma anche il suo principio ispiratore. E allora l’uomo singolo perderebbe d’un colpo i suoi diritti fondamentali, ed io i miei privilegi di uomo libero. Il nuovo governo, diventato regime, potrebbe prevaricare fino a rendersi retroattivo e mandarmi alla forca per il passato di libertà. Ancora più grave sarà se all’interno del regime, come spesso accade, pochi si renderanno conto che una tale restaurazione non è contro qualcuno, ma contro l’uomo.” “Eh già... raramente la storia la fanno i giusti; quasi sempre ritorna nel gioco dei vincitori”, sospira compiacente il direttore. “Senza rendersene conto ha pronunciato la massima più saggia da quando ha aperto bocca”, pensa Arno, sperando che la sua considerazione non gli scappi dalla testa. Un sole pallido e gigantesco sul filo dell’orizzonte annuncia la sera. Gli ultimi bagliori penetrano nel soggiorno e si mescolano con le prime ombre. Dopo l’aperitivo il direttore e la sua assistente si sono nutriti solo di biscottini e noccioline. Giungono i rumori familiari della cucina dove Carolina prepara la cena; è rientrata dal lavoro con una fame da lupo. Il signor Schmidt chiede di poterla aiutare. Il suo copione diplomatico per questa visita gli fa credere di essere anche un cuoco. Prima però vorrebbe telefonare al Velotax per le istruzioni di chiusura e in famiglia per annunciare il ritardo. Marta è felice. In uno slancio incontenibile si getta nelle braccia di Arno. Gli imprime un bacio caldo sulla guancia e gli sfiora le labbra con la morbidezza dei polpastrelli. Mario Tamponi