Mario Tamponi Zurück
Delirio di scienza Illusionismo per una moltitudine di orfani La città è stata designata a ospitare il Congresso Neurogenetico Mondiale (CNM); un comitato internazionale di esperti l’ha preferita a numerose altre aspiranti per la presenza dello stadio più capiente e le più affidabili condizioni di sicurezza. L’edizione di quest’anno, la decima, è straordinaria per la ricorrenza da giubileo, ma soprattutto per la partecipazione in carne ed ossa d’un ospite da sogno. Un esercito da centomila poliziotti, tanti quanti i congressisti, dentro e nei dintorni dello stadio forma testuggini protettive e aggressive, pronte a stritolare chiunque degli accreditati si lasci sfuggire un movimento sbadato o un pensierino sospetto; gli estranei sono tenuti alla debita distanza dallo sbarramento di tutte le arterie sotto controllo aereo. I congressisti sono già raccolti nell’arena sportiva addobbata a festa. Le tribune d’onore delle gradinate centrali sfoggiano numerosi luminari della ricerca nei costumi di ogni angolo del pianeta; nel palco laterale a ridosso della pista d’atletica si pavoneggiano leader politici, manager, intellettuali, militari, prelati ornati di porpora. Al centro del campo erboso si staglia un esagono d’atterraggio, inghirlandato, da cui otto paggetti in divisa dorata hanno appena srotolato un tappeto rosso fino ad un baldacchino monumentale; è il cuore scenico verso cui gli sguardi di tutti sembrano convergere. Quando l’elicottero spunta nel cielo e inizia la morbida discesa verticale nel fruscio delle eliche e nel rombo binario dei motori, il mormorio della folla si raggela; l’euforia delle duecentomila mani si contrae in un’unica morsa rachitica. Nessuno applaude, il cerimoniale l’ha rigorosamente vietato; il silenzio è sembrato più appropriato per salutare l’apparizione ineffabile della scienza. L’elicottero si posa propagando le sue onde carezzevoli su erba, fiori, bandierine e le chiome degli addetti. Passa un buon quarto d’ora prima che dalla sportello spalancato esca Lui, rannicchiato nella sua “scienzamobile”, la carrozzella da disabile ormai ben più celebre del trono d’Inghilterra. Lo calano a terra quattro gorilla dal sorriso affettato, i due più corpulenti lo sospingono poi a passi ritmici e vellutati verso il baldacchino. Ai lati selve di telecamere e macchine fotografiche folgoreggianti riprendono ogni attimo fuggente del suo sguardo penetrante sotto occhiali da cento diottrie, ogni vibrazione delle orecchie elefantiache, le rughe sulla fronte orlata di sudore, il pallore sulle guance, il sorriso robotizzato non sorpreso di nulla. È annunciato nel programma in diciassette lingue che con la sua relazione aprirà il congresso e con un’altra lo chiuderà dopo tre giorni di interventi, di lavoro in commissioni, di confronti senza scontri a cielo aperto, di giorno sotto il bagliore del sole e di notte sotto la luce tremula delle stelle e quella implacabile dei riflettori. In pratica gli si riconosce la facoltà di tracciare da solo la pista legittima dell’intera disciplina, di discernere le questioni vere da quelle fittizie o irrilevanti. Questa autorità nessuno gliela contesta più dopo la pubblicazione del suo “Cantiere neurogenomico”. Finora si è parlato tanto di dna e di ingegneria genetica, ma gli ambiti di applicazione sono stati pochi e marginali. Sono stati prodotti enzimi, ormoni, vegetali resistenti, organismi modificati, ma si è continuato ad illudere gli ammalati di AIDS, di Alzheimer e di tanti altri mali del nostro tempo, al più prolungandone la sopravvivenza, alleviandone la sofferenza. Lui ora scopre il principio della salute totale. La sua innovazione non si aggiunge alle precedenti ma le rivoluziona tutte, un pò come l’invenzione della ruota alle origini della civiltà, l’introduzione dello zero nella matematica. Finora ci si è limitati ad elencare le sequenze genomiche, ad individuare parecchie proprietà dei miliardi di neuroni con le loro innumerevoli sinapsi, e così il genoma tanto enfatizzato e il cervello sono rimasti figure statiche in schemi astratti. Lui li dinamicizza ora calandoli nella vita correlata. Collega il genoma col proteoma cerebrale, cioè col sistema delle tante proteine e degli impulsi chimico-elettrici che ne consentono la produzione; e col sostegno di un geniale intreccio logaritmico ne evidenzia la logica unificante. Con ciò inaugura nella scienza l’ottica dell’intima interdipendenza di genetica cellulare e cervello nel flusso di natura-psiche-cultura, della memoria individuale e del sentire emotivo: il presunto determinismo organico si articola e sublima nella progettualità personale e sociale del soggetto. È come se d’un colpo la ricerca si catapultasse dal tridimensionale, di per sé inesistente o convenzionale, nella realtà a quattro, otto e più dimensioni, che una nuova matematica – non soltanto numerico-quantitativa – può afferrare e concorrere a coordinare. Tutto questo dovrebbe consentirci presto di appropriarci della sfera tradizionalmente opaca del cosiddetto destino, di modificarlo per una vita senza fragilità, malattie e usura per età, senza aggressività contro l’altro e gli altri, senza angoscia individuale e collettiva. Ogni battito del nostro esistere, biologicamente e psichicamente connesso con tutti gli altri, dovrebbe promuovere la ricomposizione della nostra identità, finora divisa tra sapere e potere, tra potere e dovere, tra competizione ed empatia; e introdurci in uno stato di felicità da sempre agognato e mai raggiunto e neppure sfiorato. Il “Cantiere neurogenomico” è il bestseller epocale: un volume denso illustrato da grafici ed equazioni avvincenti, il manifesto del realizzarsi per tutti della favola delle favole. Va a ruba tra i leader dell’intellighenzia, ma anche tra i contadini e le massaie che lo intronano sigillato nel salotto di casa. Importante non è leggerlo ma averlo, sapere che c’è e ci accompagna. Per i più l’autore è il mago del futuro del mondo, per i ricercatori è l’artefice e il direttore della sinfonia della vita. Il libro ora lo portano sottobraccio tutti i congressisti, pronti a consultarlo come i vescovi di un Concilio il Vangelo, come i militanti cinesi di una volta i pensieri di Mao in adunate oceaniche. Lui non parla come un comune mortale. Assieme alle funzioni motorie una paralisi galoppante gli ha già atrofizzato la laringe e le corde vocali; il gozzo a saccoccia sul collo fa da contrappeso alla gobbetta nodosa sulle spalle. La bocca non emette suoni articolati, ma guaiti che un computer incorporato, il “fonosintetizzatore”, converte in parole comprensibili con cadenza verso il metallico; altoparlanti giganti svettano dappertutto nello stadio. Di per sé è un ometto minuscolo con braccia cartilaginee e un testone su cui campeggia un ciuffetto grigiastro. È goffo e contorto. Una mano è tesa verso uno dei tanti microfoni, l’altra sembra voler fendere l’aria con gesti fragili. Il ruggito della folla si comprime per appropriarsi della sapienza che nell’aria circola come il vento; rimbalzando oltre le nuvole ridiscende come voce dello spirito. Basta aguzzare l'udito e l’ingegno per credere di decifrarne le sfumature. Il suo discorso d’esordio è spoglio della retorica celebrativa sul già noto; senza preamboli entra nel vivo con proclami nitidi, spigolosi. “Abbatteremo i nostri confini, il dolore gratuito, il piacere a bocconcini, la decadenza della carne a brandelli, lo spettro della morte, l’irreversibilità della nostra condizione!” tuona salutando l’infanzia dell’uomo nuovo come in un corale rito battesimale. Fremono gli astanti e Lui, invece di riportarli sui binari dell’ordinario, quasi si diverte a riattizzarli con ulteriori scosse da brivido. Non segue la logica progressiva dei principi teorici prima, delle derivate primarie poi e, infine, delle applicazioni parallele; no, comincia proprio dalla fine con esemplificazioni adatte a coinvolgere anche i più superficiali avidi di sensazionale, la “massa acritica e strisciante”, come Lui stesso talvolta la definisce col sottile sarcasmo del despota che la governa. A mezzogiorno del terzo giorno si svolge l’annunciata conferenza stampa per i pochi giornalisti prescelti. Sono cinque, uno per continente, estratti a sorte tra i tremila accreditati; il circuito televisivo interno ha ripreso in diretta l’operazione di sorteggio per fugare ogni sospetto di manipolazione. Alla responsabilità di rappresentare l’area europea la dea bendata ha chiamato proprio il sottoscritto, umile autore di questa rapida cronistoria. I magnifici cinque si sono presentati tre ore prima per i controlli minuziosi, a cominciare da quelli in cilindri ai raggi x. Non sono ammesse telecamere e macchine fotografiche, e di ciascuno vengono smontati e disattivati apparecchi e apparecchietti di ogni tipo – per ragioni di sicurezza e riservatezza, ma anche per evitare interferenze col sistema elettromagnetico della scienzamobile. Ora attendono Lui in una sala sotterranea attorno ad una tavola imbandita a forma di ferro di cavallo. A tavola non potranno comunicare tra loro, intervallati come sono da altrettanti giganteschi ufficiali di cerimonia, in tutto simili a guardie del corpo, che di ognuno spiano persino l’uso delle posate, le contrazioni facciali e tutto ciò che sa di linguaggio in codice verso l’esterno e l’ignoto. E quando Lui entra, agenti e invitati scattano all’unisono verso l’alto per accoglierlo con inchini devozionali. Visto da vicino saltano agli occhi la spugnosità del porro sulla punta del naso, l’intera rete di vasi sanguigni nella trasparenza controluce dei padiglioni auricolari, la rosea sottigliezza delle dita: sembra che tutto il corpo, a cominciare dalle sue esili estremità, voglia sciogliersi, volatizzarsi. Dalla postazione di capotavola guarda tutti senza soffermarsi su nessuno e con voce metallica augura buon appetito. Lui si nutre per via endovenosa. Gli ospiti farebbero volentieri a meno del pranzo per non distrarsi dall’eccezionalità del momento, ma rifiutare il cibo saprebbe di affronto e non toccare le posate potrebbe essere uno sfrontato indizio dell’ambiguo. Mangiano a sazietà e con la gioia liberatrice che solo il vino sa donare a chi lo gusta generosamente. Ma al momento del digestivo c’è un clamoroso colpo di scena. Proprio quando ci si aspetta che finalmente stia per cominciare il discorso da conferenza stampa, Lui viene colto da un convulso attacco di vertigini, in cui pare immergersi senza preoccuparsi di ammorbidirne le scosse. Non una crisi epilettica – si affretta a precisare l‘assistente con baritonale voce da routine – ma un’estasi ristoratrice mediante la sospensione volontaria dell’equilibrio cervicale: un abbandono all’essere, alla beatitudine dell’armonia. E le parole di Lui, appena si riprende, scendono come trascendenti nell’anima degli attoniti testimoni. Quando, a congresso concluso, giunge il momento della dipartita, lo stadio è più gremito che mai, immerso nella leggenda, commosso nel suo tributo di venerazione e gratitudine. Questa volta sulla base di decollo gli elicotteri sono cinque, uguali come gocce; non si capisce perché Lui, sprofondato nella solita carrozzella, venga introdotto in uno e non in un altro o in tutti. I velivoli poi giocando a girotondo si rincorrono in accelerazione fino a confondersi. E l’uno avvitato negli altri si leva come in processione verso la luce. Illusione ottica. In realtà Lui resta immobile; è la folla dei comuni mortali a ritrarsi da Lui, ispirazione e speranza assoluta. Ispirazione e speranza raccolte in un punto sublime nell’azzurro profondo… finchè il sole non lo sottrae allo sguardo della moltitudine ormai orfana. Mario Tamponi